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BORDER GAME, VITE SOSPESE SULLA ROTTA BALCANICA. SEI PENTITO DI ESSERE PARTITO? «SÌ. ORA NON HO PIÙ SOGNI»

Border game, vite sospese sulla rotta balcanica. Sei pentito di essere partito? «Sì. Ora non ho più sogni»

di Edoardo Albinati, Francesca d’Aloja, foto di Marcello Pastonesi

Una coppia di scrittori percorre la distanza dalla Serbia a Trieste mescolandosi con i disperati che provano a entrare in Europa, quasi sempre respinti alle frontiere in modo violento. Scoprendo che dal dolore di questa gente spesso si sprigiona un’imprevedibile vitalità

Edoardo Albinati e Francesca d’Aloja hanno preso parte a una missione organizzata dall’Agenzia Onu per i Rifugiati-UNHCR in Serbia e a Trieste. Accompagnati da Carlotta Sami, portavoce UNHCR in Italia, hanno incontrato e conosciuto la realtà di tanti rifugiati e migranti che si trovano lungo la famigerata “rotta balcanica”. Hanno incontrato volontari e persone delle istituzioni serbe e italiane e approfondito la realtà di chi ha deciso di fermarsi in Serbia, un paese che sta facendo enormi sforzi per creare opportunità per l’integrazione, e chi ha invece proseguito, sperimentando decine di volte il cosiddetto “game”, il tentativo di superare le frontiere di vari paesi europei, spesso respinti in modo crudele e violento. Ed infine chi accoglie e chi è accolto a Trieste. Un racconto a due voci che riflette quanto siano fragili gli equilibri alle frontiere europee e quanto colpiscano in modo drammatico l’esistenza di persone fragili ma desiderose di ricostruirsi la vita in modo sereno e costruttivo.

Francesca d’Aloja: «Decompressione. È di questo che ha bisogno la mia mente al rientro dalla missione balcanica con l’Agenzia delle Nazioni Unite per i Rifugiati-UNHCR. Non è semplice ritrovare le proprie ordinarie abitudini nel passaggio da una realtà così spaventosamente diversa e tremendamente vicina, alla mia vita di tutti i giorni. Le luminarie natalizie, le vetrine ammiccanti certo non aiutano, rendono tutto più insensato. “Just try to put yourself in the same situation” è la frase che mi ha accompagnato per tutto il viaggio. L’ha pronunciata Nikola Kovacevic, il giovane avvocato serbo a cui l’UNCHR ha riconosciuto quest’anno il Nansen award europeo per il suo lavoro in difesa dei diritti di profughi e rifugiati. Una frase tanto semplice quanto fondamentale ma anche, lo confesso, difficile da far propria. Io davvero non so, non posso sapere cosa significhi sopportare certe umiliazioni, non conosco l’origine di quella forza misteriosa che fa andare avanti questa gente sebbene una parola per definirla esiste: disperazione. Ne ricavo una prova tangibile e violenta all’indomani del nostro arrivo in Serbia. E forse è giusto cominciare dall’orrore, uno schiaffo che brucerà per i giorni a seguire».

Majdan, Serbia

Edoardo:«La Serbia è un paese che confina con altri otto. Attraverso le piatte distese della Vojvodina, stiamo arrivando alla triplice frontiera con Ungheria e Romania. Un paesaggio inospitale. Villaggi perlopiù abbandonati, le finestre sfondate o con le serrande chiuse, i tetti ondulati per il cedimento delle travi. Questa parte della Serbia si sta spopolando, se ne vanno all’estero o a Belgrado».

Francesca: «Majdan. Già dal nome la località evoca ricordi sinistri, basta aggiungere “ek” finali per comporre l’orrendo Majdanek, il campo di concentramento polacco. L’assonanza non è solo fonetica, purtroppo. Ci arriviamo dopo tre ore di auto e chilometri di paesaggi nebbiosi come in un film di Tarkovskij, casolari in rovina, piccole fattorie dimenticate. È a una di queste costruzioni, una stalla diroccata, che siamo diretti. Si staglia in mezzo al nulla, circondata da pozzanghere e sterpaglie. Di fronte a quello che fatico a definire ingresso, c’è un gruppo di uomini che battono i piedi per il freddo (la temperatura è scesa sotto lo zero): la prima cosa che salta agli occhi sono le loro scarpe, perlopiù sneakers in tela. Ma l’abbigliamento non è meno incongruo: tute acetate, giacche a vento che sarebbero inadatte pure a Palermo, pochissimi indossano i guanti, quasi tutti un berretto in pile. Ci stavano aspettando. Alle loro spalle una lamiera funge da protezione all’accesso del ricovero che ci apprestiamo a varcare con la reticenza di chi prevede che oltre la soglia lo aspetta un girone infernale. E tale è. Una struttura rettangolare lungo il cui perimetro grandi aperture lasciano entrare un vento gelido. Sul pavimento è disseminata una cinquantina di minuscole tende sudice e lacere, con intorno un tappeto di lerciume. C’è un odore aspro, sprigionato dai materiali utilizzati per accendere fuochi di fortuna: pneumatici, cartoni e poca legna, perlopiù umida e quasi inservibile. Si fa avanti un ragazzo, fradicio, è appena tornato dopo l’ennesimo tentativo di traversare il confine rumeno, il famigerato “game”. I poliziotti lo hanno minacciato con la pistola seguendo l’ottuso rituale del pushback. E lui: “Perché mi punti addosso la pistola? Non sono un animale pericoloso!”. “We are no animals, we are no criminals” sono le frasi che ripetono insistentemente anche a me. Vorrei rispondere che se anche lo fossero non meriterebbero un trattamento del genere, e che il termine criminale andrebbe semmai rivolto a quelli che li respingono in maniera più o meno brutale. Siamo in Europa, santiddio. C’è anche un bambino, avrà otto anni. Non lascia mai la mano del padre, ed è l’unico, in quell’inferno, a regalarmi un sorriso. Ingoio una bestemmia insieme alle lacrime che faccio fatica a controllare. Penso alla notte che si avvicina, ai telefoni scarichi (il loro vero e unico tesoro), alle temperature implacabili, a me, che fra qualche giorno tornerò nel paese che sognano».

Edoardo:«Molti di loro hanno ai piedi nudi un paio di Croc semisbriciolate. Mostrano le loro piaghe e cicatrici, frutto della guerra o dei maltrattamenti polizieschi. A parte le randellate e le ustioni di sigaretta e ferro da stiro, la violenza più odiosa l’ha subita un siriano a cui i gendarmi si sono limitati, sadicamente, a rompere gli occhiali. Quando li intercettano, gli fregano i soldi, gli spaccano i cellulari, affinché non ci provino più, eppure loro continuano a provarci. Nel gergo della rotta balcanica, si chiama “game”, il tentativo ripetuto di scavalcare le frontiere, dieci volte, venti o trenta volte: una specie di lotteria, o di roulette, la cui posta è la vita. “Vedi, la migrazione è come l’acqua. Blocchi un punto e comincerà a gocciolare da un’altra parte.” E i paesi confinanti? Da qualche po’ di tempo i croati stanno più attenti a non esagerare, vista la cattiva stampa su come trattavano i migranti (leggi: vere e proprie torture). L’Ungheria fin dal 2016 si era portata avanti militarizzando tutta la frontiera con filo spinato e posti di blocco. La polizia rumena ancora ricorre alla tradizionale tecnica delle legnate. “Ma qui, riuscite a pregare?”, chiedo, visto che molti sono musulmani e hanno il precetto di farlo cinque volte al giorno. “Come possiamo?”, e indicano il fango cosparso di detriti dove inginocchiarsi. Dentro quel capannone, brulica un’umanità allo stremo eppure ancora bizzarramente vitale: figure simili a quelle che nel mese di novembre abbiamo visto annaffiare con gli idranti sulla frontiera tra Polonia e Bielorussia. Uno yemenita timidamente protesta perché non si parla mai del suo paese, e ha ragione, lo Yemen ha visto, a oggi, quattro milioni di persone costrette a fuggire per la guerra».

Davvero non so cosa significhi sopportare certe umiliazioni, non conosco l’origine della forza misteriosa che fa andare avanti

Francesca: «Si avvicina un altro ragazzo. È un ingegnere irakeno, parla un ottimo inglese. E’ tornato ora al fienile dopo aver tentato, all’alba, il suo venticinquesimo game. Si è sentito male, non riusciva ad andare avanti per il freddo. “Domani ci riprovo,” dice, “è la mia sola possibilità”. I pochi chilometri che li separano dal confine sono la chimera che spiega quel pernottamento allucinante. C’è gente che sta qui da mesi. Hanno affrontato ogni genere di rischio, sono finiti nelle mani di trafficanti senza scrupoli, hanno patito freddo e fame alla ricerca di una “vita dignitosa” e non vogliono fermarsi in un paese che (nonostante sia sicuro e offra crescenti opportunità di integrazione) offre salari insufficienti a ripagare i debiti contratti per affrontare il viaggio: la Germania, la Francia, l’Austria sono le mete ambite, il sogno europeo. C’è dell’epica in questo movimento umano inarrestabile. Vanno avanti e non si fermano, nonostante muri e fili spinati. L’ultimo schiaffo me lo riserva il passaggio di un pakistano che mi mostra una pentola con un fondo di maccheroni incollati. “Pasta italiana!” mi dice nel suo tragico omaggio alle nostre origini. Che Dio ci perdoni».

Edoardo: «Fuori dal capannone, nel nulla del nulla, un paio di sagome incappucciate palleggiano per ingannare il freddo e il tempo, il pallone bucato quando piomba nel fango non rimbalza. Dopo un po’ smettono. La linea dell’orizzonte si dissolve nel livido crepuscolo invernale: lì, a qualche chilometro, oltre l’invisibile confine, a destra c’è la Romania, a sinistra l’Ungheria. Risaliti in macchina, Francesca piange di sconforto sulla spalla di Carlotta Sami. Alcuni desperados di Majdan ci salutano con la V di indice e medio: il segno di vittoria più incongruo che io abbia mai visto. Molte ore di macchina dopo, belli cotti, ci infiliamo in un locale di Belgrado dove rifugiati iracheni e di ogni dove hanno cucinato piatti buonissimi, e li condividono con i locali. Malgrado la stanchezza è una bella serata, il cibo resta la più semplice occasione di incontro. Schiacciando tra i denti semi di melograno, piccole esplosioni dolci, cerco di non pensare troppo a quello che abbiamo visto stamattina. Cioè, dovrei pensarci, in fondo siamo qui per questo, no? ma preferisco non farlo e riuscire a dormire stanotte. Non mi si leva dalla testa una frase sentita a Majden: “Io mi chiedo solo: perché ci umiliano così?”».

MIRATOVIC E PREŠEVO, SERBIA

Francesca: «Partiamo all’alba da una Belgrado coperta di neve, ci aspettano quattro ore di viaggio per raggiungere il confine con la Macedonia del Nord, là dove transitò quasi un milione di persone in fuga dalla Siria, tra giugno 2015 e marzo 2016».

Edoardo: «A Miratovac, proprio sul confine con la Macedonia. Nevica fitto lungo il binario desolato che congiunge i due paesi. Il nostro accompagnatore Boban (il classico omone serbo) ricorda quando lungo quel binario camminava inesorabile una folla di migliaia di persone ogni giorno. L’epico esodo dei siriani. Ora le tende vuote sbattono nel vento».

Un ingegnere iracheno è tornato al fienile dopo aver tentato, all’alba, il suo venticinquesimo game. «Domani ci riprovo»

Francesca: «“Abbiamo imparato molto da quell’emergenza” ci dice Liria, responsabile del team UNHCR per il campo di Preševo. È una donna in gamba, Liria, entusiasta del proprio lavoro. Dopo averci rifocillato con specialità albanesi (la maggioranza della popolazione qui è albanese), ci accompagna a visitare l’RTC (Reception Transit Center), che un tempo era una fabbrica di tabacco. I vari reparti, dal refettorio ai dormitori, dal magazzino alle lavanderie sono ben organizzati, puliti. Ci sono spazi per le famiglie e i bambini possono frequentare la scuola. Da quando i confini degli Stati lungo la rotta balcanica sono stati chiusi, il flusso si è naturalmente ridotto e il viaggio verso l’Europa è diventato sempre più costoso e pericoloso. “Quelli che hanno soldi ce la fanno” mi dice un ventenne siriano alludendo all’unico sistema che garantirebbe loro l’ingresso in Europa: affidarsi (sarebbe più corretto dire consegnarsi) ai trafficanti. Il business della migrazione non è mai in perdita, sulla disperazione si guadagna, e in nome del profitto si compiono impunemente soprusi inauditi. Una violenza che si legge negli occhi e nei corpi spesso martoriati di persone che non chiedono altro che il riconoscimento di un diritto sancito dalle convenzioni internazionali. Li vediamo deambulare in ciabatte attraverso i reparti del centro. Sono quasi tutti giovani maschi partiti mesi, anni prima (la concezione del tempo viene rielaborata continuamente, l’unico punto fermo resta la data di partenza, quella di arrivo è imponderabile), che hanno congelato porzioni di vita legittime. Non coltivano amicizie, amori, non conoscono la spensieratezza, l’illusione di un sogno, il diritto a giocare a lavorare a divertirsi a sorridere. Nel piccolo corridoio che immette all’infermeria sono seduti alcuni ragazzi in attesa della visita medica. È buio e quasi tutti hanno il volto seminascosto dal cappuccio della felpa, ma uno di loro colpisce la mia attenzione (o forse i miei sensi)».

Non coltivano amicizie, amori, non conoscono la spensieratezza, il diritto a giocare a lavorare a divertirsi a sorridere

Ha le mani in tasca, la postura difensiva, guarda in basso. Poi solleva lo sguardo e in quella penombra m’illuminano i suoi occhi. Occhi afghani, gli stessi potenti occhi della ragazzina ritratta nel famoso scatto di Steve McCurry e che appunto, solo in quel luogo della terra esistono. Sono bellissimi e dolenti, forse sufficienti a spiegare, insieme alla ruga incongrua che segna la sua fronte di quattordicenne, quali difficoltà abbia attraversato lungo il cammino (il solito: Afghanistan-Iran-Turchia-Grecia-Bulgaria…) che lo ha portato, per adesso, fin qui. Migliaia di chilometri macinati insieme a “due cugini” (il virgolettato è purtroppo d’obbligo, non essendo mai certa la veridicità di parentele dietro le quali si possono nascondere profittatori di ogni genere). Prima di lasciare Preševo, chiedo a Liria di raccontarci un episodio che l’ha colpita più di altri, e lei risponde senza troppo pensare, segno che quel ricordo, nonostante siano trascorsi sei anni, è ancora vivo e presente: “Fra le migliaia di persone notai una ragazza che teneva in braccio un bambino di pochi mesi. Il piccolo, affamato, piangeva disperato, ma la mamma non aveva più latte. Allora mi offrii di allattarlo io, avevo partorito da sei mesi e il latte non mi mancava…” Liria si commuove e noi insieme a lei. Viene in mente la straordinaria scena finale di Furore di Steinbeck, con il vecchio moribondo allattato dalla ragazza che ha appena avuto un bambino: “I know love and fortune will be mine/ Somewhere across the border”».

KRNJACA, BELGRADO

Francesca: «Nur è nata a Herat, in Afghanistan, ed è arrivata in Serbia quattro anni fa insieme al marito e ai tre figli. Hanno tutti fatto richiesta di asilo, la loro vita ricomincia da qui. Sta seduta di fronte a noi nella saletta messa a disposizione per i nostri incontri, nel centro di accoglienza di Krnjača, appena fuori Belgrado. Non è il niqab a coprirle il volto ma la mascherina, come per tutti noi. Ha occhi bellissimi da ragazzina, sembra più giovane dei suoi ventotto anni. “Qui mi sento più libera, nel mio paese essere donna è molto difficile.” E poi, commuovendosi, dice qualcosa che la accomuna ai molti profughi che abbiamo incontrato: “Potreste fare qualcosa per le donne afghane? Non abbandonatele per favore…”. Non parla per sé, Nur, ma si fa portavoce degli altri, delle altre. Nessuno chiede qualcosa per sé, parlano tutti al plurale. Quando le dico che ho fatto l’attrice, le brillano gli occhi: “Anche io vorrei fare l’attrice, ho recitato in uno spettacolo insieme ad altri rifugiati come me.”»

«Per noi un paio di scarpe robuste e un cellulare fanno la differenza fra restare vivi e morire. Sono speranza, non un lusso»

Edoardo: «Quando Nur ha abbassato la testa e per pudore si è coperta i begli occhi pieni di lacrime, ho provato un sentimento violento e molto particolare che è di pena e tenerezza miste a una paradossale gioia. Esatto, gioia. Scriveva Hölderlin che invano noi ci sforziamo di dire gioiosamente il gioioso; ed ecco che, infine, nel lutto esso si esprime. E’ proprio così, dal dolore di questa gente talvolta si sprigiona una imprevedibile vitalità, un’esultanza che si trasmette a chi sta loro vicino. Sono momenti toccanti o anche divertenti che, mi dispiace per loro, i frustrati detrattori delle attività umanitarie, impegnati a demolire ogni minimo accenno di solidarietà, in vita loro non proveranno MAI. Per esempio, da noi in Italia spesso vengono presi a bersaglio i migranti solo perché possiedono un cellulare. Ma il giornalista serbo Momir Turudic lo spiega benissimo: “Be’, un paio di scarpe robuste e un cellulare fanno la differenza tra restare vivi e morire, per chi deve percorrere centinaia di chilometri a piedi in posti sconosciuti. Non sono un lusso, ma la sola speranza di sopravvivere.”»

Francesca: «Gli spettacoli di cui ha parlato Nur sono spesso opera di Branka Katic, un’attrice serba molto nota, che ha preso a cuore la causa dei rifugiati e collabora regolarmente con UNHCR organizzando seminari di recitazione. Non è un attivismo di facciata il suo, basta parlare un po’ con lei per essere contagiati dal suo fervore: “I spread all over my blonde enthousiasm!” dice ridendo. È bella gente quella che si occupa di queste cose, c’è poco da fare. Come Nikola Kovacevic che offre assistenza legale ai migranti e combatte affinché vengano loro riconosciuti diritti spesso calpestati, offesi, o nel migliore dei casi ignorati. Una forza della natura l’avvocato serbo, giocatore di pallanuoto, il classico tipo che vorresti avere accanto in un momento di pericolo. O la rappresentante dell’UNHCR a Belgrado, un’italiana, Francesca Bonelli, molto battagliera, che col suo lavoro sta creando opportunità di asilo e integrazione fino a poco tempo fa impensabili. Un futuro in Serbia, per esempio, potrebbero averlo tre ragazze del Burundi, Belyse, Lynda e Alice, che abbiamo incontrato al centro di Krnjača. Sembrano sollevate, e sorridono quando gli chiediamo di abbassare le mascherine. Ci spiegano in un bel francese pulito che gli piacerebbe restare qui. Una di loro è una psicologa. L’atmosfera con loro si distende, si fa quasi giocosa. Non ci immaginavamo proprio di trovare qui ragazze africane: come la prima sera a Belgrado, Virginie, anche lei del Burundi, timida e bellissima, che studia biochimica all’università».

Il confine fra slovenia e italia è impresidiabile. «Ci sono ventidue valichi e noi abbiamo tre pattuglie…»

Edoardo: «L’ambasciatore Carlo Lo Cascio con molta pazienza cerca di spiegare a noi profani la singolare posizione geopolitica della Serbia: in attesa del via libera per entrare a far parte dell’EU, e al tempo stesso corteggiata da altri paesi, ovviamente la Russia, con cui il legame storico è sempre forte. La statua dello zar Nicola II è sempre lì, in Kralja Milana, a due passi dal Parlamento, e tutti i documenti ufficiali per legge vanno scritti in cirillico. Ora, sopratutto l’Italia preme per l’ammissione, del resto siamo il secondo partner commerciale della Serbia, tallonato dalla solita Cina. E’ insomma un paese in bilico. “Non dobbiamo aspettare che Russia, Cina e Turchia arrivino: sono già qui,” rammenta Lo Cascio. Eppure, penso io, c’è più Europa qui che, poniamo, in Lettonia… anzi di storia europea qui ce n’è persino troppa! Putin intanto tiene ben aperta la sua corsia preferenziale nei Balcani: i serbi pagano il gas russo a una tariffa irrisoria, fuori mercato, e hanno la garanzia che Mosca e Pechino al consiglio di sicurezza ONU voteranno sempre no al riconoscimento del Kosovo. In tema di migrazioni la Commissaria europea per gli affari interni Ylva Johansson ha di recente definito l’atteggiamento della Serbia “umano e pragmatico”, il che, commentiamo tra noi, è un bel complimento se paragonato a quanto stanno combinando alcuni paesi membri, a cominciare da Ungheria e Polonia. (E in effetti da quel che abbiamo visto fin qui, ha ragione la Commissaria, la Serbia si sta comportando bene. Ha persino messo in piedi un’Agenzia indipendente che si occupa specificatamente dell’asilo. Resto convinto che pragmatismo voglia dire proprio questo: nessun manicheismo, non affrontare i problemi a colpi di slogan ma cercando di ridurre quanto più possibile il danno e anzi tramutarlo in un’occasione di crescita. Essere pragmatici forse significa semplicemente essere umani.)»

BELGRADO-LUBIANA-TRIESTE

Edoardo:«Un protagonista di questa breve incursione balcanica è stato il fumo. I miasmi velenosi che ristagnavano nella stalla di Majdan, il fumo delle sigarette aspirate voluttuosamente negli interni di ogni ufficio o ristorante di Belgrado. Non ci siamo più abituati, dai tempi in cui si fumava al cinema, e le volute azzurrine si stagliavano nei raggi del proiettore. Branka ci ricordava ridendo come persino nel gabinetto del suo dentista ci sia un posacenere, per fumare tra un’estrazione e l’altra. Aspettando l’aereo, leggo un libro sugli dei greci, che, secondo l’autore, Walter Otto, sono presenti in modo costante in ogni pensiero, decisione o azione intrapresa dagli uomini. E a Majden? Da quella spianata fangosa gli dei sembravano essersi dileguati, per orrore verso tanta miseria umana; oppure era un dio ignoto a spingere senza tregua quei disgraziati contro il filo spinato del confine ungherese, ogni giorno, e a non fargli sentire gli sfollagente dei poliziotti rumeni. Che nome dare a questo dio che suscita in uomini comuni una forza e una resistenza sovrumane? Tra quei migranti ce n’era uno già abbastanza anziano, capelli e baffi bianchi, pieno di cicatrici sulle ginocchia, sui polsi e sul costato: ebbene, aveva tentato già trentotto volte. Trentotto volte respinto con le cattive. Appena decollati, dal finestrino vedo la Sava gettarsi nell’immenso Danubio, che a Belgrado dicono verde invece che blu. Lubiana la troviamo sepolta dalla neve».

FERNETTI, TRIESTE

Edoardo: « Il confine tra Slovenia e Italia è impresidiabile. Lo afferma in tutta onestà Fabio Soldatich, dirigente della polizia di frontiera a Fernetti, sopra Trieste. “Ci sono 22 valichi, e noi abbiamo tre pattuglie…”. E’ quello che con soffice eufemismo viene definito un confine “poroso”. Dovrebbero tenerne conto, i patrioti che invocano la difesa a tutti i costi dei confini italiani: se ogni tanto si occupassero di realtà e non di strillare slogan. E poi, difesa da chi? Da eserciti nemici? No, da qualche gruppetto di profughi e migranti. “Qui vai per asparagi selvatici… e ti ritrovi senza accorgertene in Slovenia.” Uno può immaginare che a condurre il business siano trafficanti delle solite nazionalità, e invece no: non molto tempo fa hanno arrestato una cittadina tedesca che nascondeva tre indiani nel bagagliaio dell’auto. Persino una pensionata slovena ci si è messa, a trafficare uomini, è molto redditizio, i prezzi sono andati alle stelle: se fino al 2015 dalla Grecia a qui pagavi tre o quattrocento euro, ora solo dalla Bosnia te ne chiedono fino a cinquemila. I respingimenti (chiamati in modo eufemistico “riammissioni”) dal 2021 in Italia sono stati dichiarati illegittimi. E’ il risultato di un fitto dialogo tra le nostre autorità, l’UNHCR e le altre associazioni affinché venisse riconosciuto il diritto a chiedere asilo dopo aver affrontato ogni tipo di violenza durante il viaggio. Prima, uno sorpreso alla frontiera italiana veniva ricacciato in Slovenia, gli Sloveni lo acchiappavano e lo portavano al confine con la Croazia, e i croati lo ributtavano in Serbia, cioè fuori dall’EU, in una specie di crudele gioco dell’oca, dove un lancio di dadi sbagliato ti fa retrocedere di parecchie caselle, magari quando sei giunto a un passo dall’arrivo. Succedeva persino che in Serbia o in Bosnia ci finisse, ricacciata indietro, gente che non ci era mai passata prima: i paesi appena fuori dall’EU insomma usati come discariche umane, come secchi dell’indifferenziata… E sono gli stessi poliziotti a essere un po’ stufi della favola dell’ “invasione”. “Perché se ne parla così tanto e se ne conosce così poco?” si chiedono. (E poi, che strazio non riuscire mai a parlare delle cose, e invece starsi sempre a trastullare con la loro narrazione! Finiamola con ’sto mantra della narrazione! Le cose in fondo sono quello che sono.) Ora alla stazione di Fernetti ci sono cinque appena arrivati, due dal Punjab e tre dal Bangladesh. Attendono nel prefabbricato che da un po’ di tempo ha sostituito i tendoni: facile immaginare che la bora se li sarebbe portati via, i tendoni. Sono piccoli uomini scuri e magri, mascherati, infreddoliti nelle coperte, ma abbastanza vispi. Il loro viaggio dal delta del Gange fino al Carso triestino è durato, in media, da due a tre anni. Entra il medico a fargli il tampone. Poi la quarantena. Nel 2021 ne sono arrivati qui, in tutto, novemila».

Francesca: «La sindrome da stress post traumatico è un elemento poco considerato nell’anamnesi,” ci dice Michele Carraro, medico volontario dell’associazione Donk, che incontriamo a Casa Malala, il centro di accoglienza al confine italo-sloveno. “Il limitato numero di personale medico finiva per produrre visite frettolose, orientate soprattutto alla diagnosi di patologie infettive, come la tbc o la scabbia. Ora stiamo cercando di esaminare anche l’aspetto psicologico, ad esempio le conseguenze delle torture subite, un flagello finora poco evidenziato.”»

Edoardo: «Gli stati patologici che i medici di DonK riscontrano a prima vista sono piaghe a piedi e gambe, affezioni delle vie respiratorie, enteriti dovute all’acqua contaminata, e poi ferite di ogni tipo (da arma da taglio o da fuoco, ustioni da sigaretta o da metallo arroventato…). Ci raccontano la storia incredibile di un iraniano, un uomo facoltoso, dirigente d’industria, ma oramai quasi cieco per una retinite pigmentosa incurabile, che non sono riusciti a trattenere: voleva a tutti i costi raggiungere la Germania o l’Inghilterra, incurante del suo stato (torna in mente il commovente personaggio interpretato da Donald Pleasance nel film La grande fuga…). Quindi è riuscito a partire da Trieste tutto solo e ci ha telefonato da Parigi, sì, dalla Gare de Lyon, un vero miracolo che ci fosse arrivato. Ma la stazione stava chiudendo per la notte, si è trasferito nei sotterranei del Metro, lo hanno mandato via anche da lì, e ha dormito sotto una pensilina, poi la mattina è riuscito a prendere il treno per Francoforte… “Voglio trovare una cura per la mia anima, non per i miei occhi.” Carraro sospira. “E’ così: quando uno di loro sente che deve andare, va. Qualunque impedimento, qualsiasi malattia abbia, niente riesce a fermarlo. Trova un’energia che non possiamo nemmeno immaginare…” »

Gli afghani si mettono in viaggio a 12 o 13 anni e arrivano qui a 17, magari sono nati in esilio, da genitori scappati in pakistan o in Iran

Francesca: «Incontriamo un ragazzo pakistano, arrivato da tre mesi dopo avere attraversato le classiche tappe. Quando ha lasciato il suo paese, quattro anni fa, aveva 17 anni. “Avevi paura quando hai cominciato il viaggio?” “Sì, molta. Sapevo che sarebbe stato difficile.” “Cosa ti sei portato da casa?” “Nulla. Uno zaino e il cellulare che mi è stato sequestrato in Iran…” “I momenti più difficili?” “È sempre difficile”. “Ti sei pentito di essere partito? “Sinceramente sì. Al mio paese avevo una vita. Studiavo, il mio sogno era diventare medico. Adesso non ho più sogni.” “Cosa ti ha insegnato questo viaggio?” “Ho imparato come si vive la vita.” Nei racconti le voci sono sempre pacate, quasi distaccate. Solo gli occhi denunciano. Viene da chiedersi quali sentieri tortuosi abbiano preso i sentimenti negativi. Ed è difficile la posizione di chi ascolta, non solo per la complessità del racconto che si percepisce essere parziale per un’infinità di intuibili ragioni: paura, sofferenza, desiderio di rimozione – ma anche perché l’ascolto ti induce a non restare indifferente, a fartene carico».

Edoardo: «Siamo al ICS (Italian Center of Solidarity) di Trieste, ad ascoltare storie. Gli Afghani partono a 12 o 13 anni e arrivano qui a 17, magari sono nati già in esilio, da genitori scappati in Pakistan o in Iran, e il loro paese d’origine non l’hanno visto mai. Hanno capelli nerissimi e occhi verdissimi, quella miscela sconcertante dalle nostre parti dove i colori vanno perlopiù assieme alla carnagione – biondi con occhi chiari e bruni con occhi neri. La storia burrascosa di Najib è quella di un ragazzo pashtun che deve scappare per una faida locale: è il primogenito di una famiglia facoltosa, e lì, a Swat, in Pakistan, rischia la pelle, dunque il padre lo obbliga a partire. “Attraverso il Belucistan arrivo in Iran. Non avevo idea di dove stessi andando. Sempre da solo viaggio in Iran, a piedi e in macchina, ci metto quindici giorni, e poi da lì passo in Turchia.” In Turchia se la vede brutta con una banda di Curdi armati di coltello, quindi, arrivato quasi al confine tra Turchia e Grecia, in mezzo a un bosco, un gruppo di afghani lo sequestra. Lo tengono prigioniero per due settimane e chiedono diecimila euro di riscatto al padre (più tardi Daniel, eritreo dell’UNHCR, ci spiegherà come funzioni, tra trafficanti e banditi, questo sistema di trasferimento anche di grosse somme di denaro attraverso dei complici locali, in maniera difficile da tracciare…). Una volta ricevuti i soldi, i rapitori di Najib ne chiedono ancora, e per questo rifiutano l’offerta di un altro gruppo di banditi afghani che volevano comprarsi Najib per mille euro e gestire loro l’ostaggio. “Mi puntavano il coltello alla gola e mi dicevano: chiama i tuoi genitori e digli che sei in Grecia, digli che sei in Francia…”».

I profittatori si presentano sempre in coppia, fingendo di prestare aiuto, come il gatto e la volpe

Per fortuna sono sempre fatti di droga fumata con la shisha, sicché una notte Najib, mentre quelli dormivano, riesce a scappare forzando a calci le sbarre alla finestra. Attraversato il fiume Evros, riesce a entrare in Grecia, dove resterà a lungo lavorando per dodici ore al giorno la terra e raccogliendo olive. Da lì, a piedi, in Macedonia, da dove viene respinto tre volte, ma poi riesce a farcela in treno, e quindi in Serbia. “Quanto tempo sei rimasto in Serbia?” gli chiediamo. Non riesce a rispondere. Dice solo: “Quando viaggi, non sai che giorno è, che anno è…” (ed ecco che alle nostre orecchie di colpo assume tutto un altro significato la famosa canzone di Lucio Battisti…). Comunque rimane almeno un mese a Presevo, e poi da lì raggiunge la Bosnia, dove trascorrerà un anno e mezzo. “Cosa cercavi?” “Un paese dove vivere tranquillo,” risponde. Da questo punto in poi si sussegue una ventina di “game” quasi sempre falliti per attraversare Croazia e Slovenia e raggiungere in Italia, ma quando ci riesce, la prima volta, viene respinto indietro fino alla Bosnia. Il 18 ottobre scorso, oramai ventiquattrenne, approda di nuovo in Italia. “Bevi il tuo caffè, prima che si freddi…” Per farlo si abbassa un istante la mascherina. Una faccia simpatica. “In tutto questo tempo,” gli chiediamo, “hai mai incontrato una persona buona, che ti abbia aiutato?” Scuote la testa. “No.” “Nemmeno una su cento?” “Forse una sì.” Dunque le altre novantanove no. All’inizio del suo racconto aveva messo in mezzo i Talebani, come motivo della sua fuga, ma poi li ha lasciati cadere. Il nostro interprete ce lo conferma: anche lui, che ora vive e lavora in Italia da anni, al suo arrivo qui aveva usato la parola magica “Talebani”, per ottenere attenzione, comprensione… »

«Cosa ne sarà di questi adolescenti che non hanno avuto infanzia? Dove finisce la loro rabbia?»

Francesca: Entra Aida, una delle poche ragazze incontrate fin qui. Marocchina. Porta con sé forza e freschezza, e regala sorrisi che neanche la mascherina riesce a nascondere. Ha voglia di parlare e sa come farsi ascoltare, un dono che deve esserle stato utile per superare le peripezie che la vita le ha riservato. A 19 anni, incinta, parte da Fez insieme a Osama, il suo ragazzo, per sfuggire alle vessazioni degli zii materni (ricorrono spesso nelle storie queste figure di zii brutali…). La mamma e la nonna coprono la fuga e le danno 4000 euro. Nessuna meta precisa, la scelta cade su paesi che non richiedono il visto. Comprano un biglietto per Istanbul, appena arrivati vengono intercettati da due figuri (altre presenze ricorrenti…) che promettono loro aiuto per andare in Italia in cambio di 1000 euro. Saranno invece sequestrati e chiusi in una stanza da cui riescono a fuggire gettandosi dalla finestra. Lei perde sangue. È l’inizio di una serie di sventure: intercettati dalla polizia turca vengono nuovamente derubati dagli stessi poliziotti, poi aiutati da una famiglia di palestinesi che si offre di traghettarli in Grecia, lei però sta troppo male e finisce in ospedale. Le fanno un raschiamento senza anestesia. Senza più un soldo, Aida e Osama vivono a Istanbul da clochard, chiedendo l’elemosina. Li attendono due anni di marcia lungo il classico percorso balcanico: Grecia, Albania, Montenegro, Bosnia (“il paese più razzista”), Croazia (“i poliziotti più cattivi, ti rubano pure le scarpe…”), Slovenia. Nel frattempo era rimasta di nuovo incinta, e le vengono le doglie in mezzo alla foresta slovena, ma fortunatamente trova rifugio in una casa isolata (“sembrava un’apparizione!”) il cui proprietario è un infermiere che la aiuta a partorire. Un parto miracoloso che richiama l’attenzione dei media sloveni (Aida ci mostra orgogliosa l’articolo di un giornale). Finalmente, l’arrivo a Trieste. “La storia sarebbe molto più lunga ma non vi racconto tutto perché la sto scrivendo, nel mio libro!”. E sorride. Sembra felice, ora.

L’Italia le piace, ha chiesto asilo, la figlia va a scuola e impara la nostra lingua. Si sta integrando. Siamo stanchi e provati, dal viaggio, dai racconti, da ciò che abbiamo visto. Ascoltiamo ancora un ragazzo. Pakistano, arrivato in Italia da due anni, con lo statuto di rifugiato a tutti gli effetti. Ha il volto seminascosto dalla mascherina e dal cappuccio della felpa che non vuole togliere. Il suo racconto è sovrapponibile a tanti altri: stesso iter, uguali i passaggi. Mentre parla mi accorgo di non avergli posto la domanda rituale: “Quanti anni avevi quando sei partito?”. La sua risposta proietta tutto ciò che ha detto fino a quel momento in un pozzo ancora più nero e profondo: “Tredici anni”. Tredici anni. Il lungo viaggio che dal Pakistan lo ha portato in Italia è fatto di solitudine, paura e incredulità. Affidato a dei passeurs che lo scaricano in Turchia (dopo aver attraversato a piedi l’Iran), si ritrova a Istanbul, non conosce nessuno e come da copione finisce nelle grinfie di due uomini (si presentano sempre in coppia, come il Gatto e la Volpe), che prima gli offrono aiuto poi gli chiedono dei soldi. Arriva in Grecia, lo ferma la polizia e lo spedisce in un campo profughi dove resta 18 mesi senza poter uscire. Poi va a Salonicco, dorme all’aperto, nel parco. Un quarantenne lo vede e gli offre aiuto, lui ha paura, non si fida, ma l’altro è rassicurante e allora lo segue. Lo ospita alcuni giorni e gli trova lavoro nei campi dove però viene sfruttato e mal pagato (“lavoravo dalla mattina alla sera e i soldi guadagnati servivano a malapena per vitto e alloggio”). Sballottato da una parte all’altra, si unisce a un iraniano che gli procura un passaggio in Macedonia: i trafficanti lo lasciano a due chilometri da un campo profughi serbo dove resta alcuni giorni. Da lì riparte insieme a una famiglia araba diretta a Belgrado, dove altri passeurs garantiscono un passaggio in Bosnia. Alla stazione delle corriere viene derubato di tutto ciò che possiede: soldi e cellulare. Riesce comunque a partire per la Bosnia, ma non c’è posto nel campo profughi che dovrebbe accoglierlo e trova rifugio in un casolare abbandonato. Tenta trentacinque game per avvicinarsi all’Italia. Attraversa la Bosnia in soli 13 giorni, a piedi, insieme ad altri dodici, sette dei quali mollano per il freddo o perché fermati dalla polizia. Lui resiste e continua la marcia attraverso i boschi sloveni. Il 5 dicembre 2019 arriva in Italia. Ha sedici anni».

Edoardo:« Nel piazzale davanti alla stazione ferroviaria di Trieste Lorena Fornasir si reca ogni pomeriggio verso le quattro tirandosi dietro un carrellino con le medicazioni. Arrivano qui alla spicciolata, coi piedi congelati. Le ferite procurate durante il game stentano a rimarginare. Lorena presta ai nuovi giunti il pronto soccorso. Quella che lei e suo marito Gian Andrea Franchi è un’azione che però si vuole politica e non solo umanitaria, una forma di attivismo e non di semplice volontariato. Nel novembre scorso, il gip ha archiviato un procedimento a loro carico per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. I due erano stati indagati e considerati (in modo alquanto inverosimile…) nientemeno che il terminale italiano di un’organizzazione internazionale di trafficanti: e tutto ciò per aver ospitato due notti una coppia iraniana con bambini, e per averli facilitati nell’acquisto di un biglietto ferroviario per la Germania… Lorena davanti alla stazione di Trieste si prende cura delle piaghe fisiche, ma è una psicoterapeuta, e si chiede: “Cosa ne sarà di questi adolescenti che non hanno avuto infanzia? Dove finisce la loro rabbia?”»

Francesca: «Ultimo giorno a Trieste, spazzata da una bora gelida. Chissà in quanti lassù, oltre il profilo delle colline carsiche, oggi proveranno il “game”. Il senso di impotenza fa un male fisico, hai voglia a raccontare, ma sai che non basta, sai che chi la pensa come te non ha forse bisogno di parole (anche se credo si debba inventarne di nuove, quelle pronunciate tante volte hanno perduto il loro significato a forza di ripeterle…) e gli altri non vogliono sentirle. Le parole non sono sufficienti. Ma quando vedi con i tuoi occhi, ti accorgi quanto l’orrore e la bellezza siano più vicini di quanto si riesca a immaginare, di quanto la disprezzabile umanità sia capace persino in quei frangenti di mostrare un’invincibile bellezza».

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